Una sera all’inizio del 2014 tre giovani uomini che erano già o stavano per diventare fra i più ricchi della Silicon Valley sedevano al Nihon Whisky Lounge di San Francisco. Il menù prevedeva sushi e i commensali erano il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, quello di Instagram Kevin Systrom e Jan Koum, ideatore di WhatsApp. A quel pasto, raccontato nel bestseller «No Filter» dalla reporter di Bloomberg Sarah Frier, ciascuno dei tre portava senza sconti tutta la sua storia.
Zuckerberg, quella di un fortunato studente di Harvard uscito dall’università senza diploma ma con un social network che sarebbe diventato il più potente del mondo. Systrom invece era un laureato di Stanford che meno di due anni prima, per la cifra allora sensazionale di miliardo di dollari, aveva venduto a Facebook l’app da lui creata, Instagram, prima ancora di fatturare un solo centesimo. Zuckerberg e Systrom avevano caratteri e forse valori diversi, ma tratti comuni: entrambi americani, entrambi cresciuti nell’opulenza, avevano conosciuto prima dei trent’anni grazie a sistemi imperniati sull’idea di rendere pubblica la vita degli utenti delle loro app, di fatto inducendoli a cedere gratis i propri dati personali.
Niente a che fare con il terzo commensale, Koum. Questi era di qualche anno più grande di loro, cresciuto nella periferia di Kiev, emigrato in California con un passaporto sovietico all’età di 16 anni assieme alla madre, che presto sarebbe morta di tumore. Prima di lavorare a Yahoo! e poi fondare WhatsApp nel 2009 all’età di trentatré anni, Koum studiava all’università pubblica e viveva facendo le pulizie in un negozio di alimentari di San José. Segnato dall’opprimente imprinting sovietico, aveva voluto che WhatsApp fosse l’opposto della società in cui era cresciuto. Doveva essere il regno della libertà e della riservatezza: comunicazioni criptate dal mittente al destinatario, niente «propaganda» (cioè niente pubblicità), quindi nessun uso dei dati degli utenti. Zuckerberg aveva voluto Systrom quella sera al Nihon Whisky Lounge, perché lo aiutasse a convincere Koum.
Il capo di Facebook voleva comprare WhatsApp senza un’idea chiara di cosa farne, ma con un obiettivo: debellare un concorrente prima che questi si rendesse conto di essere realmente tale. Onavo, lo spyware digitale che Zuckerberg aveva comprato quattro mesi prima per cento milioni di dollari, gli aveva aperto gli occhi. La app di Koum era sul punto di decollare, stava già battendo Messenger dell’onnipotente Facebook. In quel momento aveva circa 450 milioni di profili attivi nel mondo, ma un anno prima stava già trasportando 8,3 miliardi di messaggi al giorno. Le persone comuni amavano usare WhatsApp più di qualunque altra chat. Per chi avesse visto i dati di Onavo — dunque solo Facebook, che ormai ne aveva l’esclusiva — era facile capire che quella piattaforma sarebbe cresciuta in maniera esponenziale.
«Bisogna pensare a cosa sarebbe successo a WhatsApp se fosse rimasta indipendente — dice ora Tommaso Valletti dell’Imperial College di Londra, ex capoeconomista dell’Antitrust europeo —. Poiché la app aveva tutte le possibilità di connettere miliardi di persone, sarebbe potuta diventare una rivale diretta di Facebook nei social network». E gareggiare con Facebook significava potenzialmente sfidarla nel mercato colossale delle risorse pubblicitarie: le inserzioni mirate grazie ai dati degli utenti oggi valgono al gruppo di Zuckerberg circa 85 miliardi di dollari l’anno di ricavi e circa 50 miliardi di dollari a trimestre per Alphabet, la holding di controllo di Google.
Capire questo passaggio nella storia di Silicon Valley diventa vitale oggi, nel pieno dell’ennesimo scandalo che ha portato il gruppo a cambiare nome — da Facebook a Meta — per provare a risollevare una reputazione macchiata dalla sete di potere del fondatore. Ciò che il più grande social media del mondo fa di WhatsApp è un test su dilemmi che vanno oltre il destino delle due piattaforme. Riguarda alcune delle domande di fondo di questo capitalismo dominato dalle Big Tech: fino a che punto un gruppo da centinaia di miliardi di dollari di valore di Borsa può essere autorizzato a divorare un potenziale concorrente, semplicemente per impedirgli diventare tale? In che misura queste azioni soffocano il dinamismo, la creatività e la pluralità che sono l’essenza stessa di un ordine sociale aperto?
Quella sera del 2014 alla cena di Sushi, Koum non era facile da convincere. Zuckerberg aveva voluto Systrom per mostrare che un fondatore poteva rimanere alla testa del suo social, sulla carta libero di gestirlo, anche dopo che quest’ultimo era stato comprato da Facebook. In realtà Systrom si sarebbe dimesso, qualche anno dopo. Alla fine però l’argomento che persuase Koum e il suo socio Brian Acton in quel momento fu un altro: Zuckerberg mise sul piatto per loro una valutazione a WhatsApp a 19 miliardi, tuttora una delle più alte nella storia di Silicon Valley, prima ancora che la app dei messaggi ne avesse guadagnato uno solo.
Pagare un prezzo del genere — osserva Valletti dell’Imperial College — è logico solo ipotizzando che Zuckerberg volesse togliere di mezzo un potenziale rivale nel mercato da centinaia di miliardi della pubblicità mirata. Il test per capire se davvero è andata così in fondo è semplice: da quando l’ha comprata, Facebook-Meta ha messo in atto strategie per far fruttare i 19 miliardi investiti sulla più grande chat del mondo? O era soprattutto interessata ad averne il controllo per neutralizzarla? Sono le domande al cuore del mistero di WhatsApp. Non esistono risposte immediate perché il gruppo non pubblica i ricavi delle controllate e, alle domande del Corriere, non ha fornito dettagli se non una conferma che oggi l’app ha oltre due miliardi di utenti. Negli ultimi anni del resto sono cadute una dopo l’altra le ipotesi di inserire pubblicità nella chat o di far pagare agli utenti l’abbonamento di un dollaro l’anno. Di certo la pressione messa da Zuckerberg su WhatsApp ha indotto anche Koum e Acton a dimettersi e lasciare il gruppo nell’aprile del 2018.
Da quando i due hanno lasciato è in corso un tentativo di monetizzazione, in due modi. Il primo punta su uno scenario in cui il commercio elettronico e i pagamenti siano sempre più integrati nel sistema composto da Facebook, Messenger, Instagram e WhatsApp. Ristoranti, lavanderie, e altre piccole imprese possono scaricare l’app gratuita WhatsApp Business e così mostrare ai clienti loro le offerte, automatizzare le risposte più frequenti e dare loro informazioni su orari o indirizzo. In questo caso l’unico canale verso una futura monetizzazione è nel catalogo, da cui si possono inoltrare ordini. Zuckerberg poi intende portare anche su WhatsApp Business i cosiddetti Shop, che oggi consentono sia su Facebook sia su Instagram di indirizzare i clienti al proprio sito per completare degli acquisti. Il passo successivo potrebbe essere l’integrazione dell’e-commerce in tutto il sistema Facebook, con la possibilità di completare le transazioni con i sistemi di pagamento Facebook Pay e WhatsApp Pay, per ora disponibili solo in Stati Uniti, India e Brasile. Tutto avverrebbe dunque senza mai uscire dalle app del gruppo. Il modello per i ricavi futuri sembra dunque abbastanza chiaro, fra commissioni, transazioni fra imprese o fra utenti. Per ora però Facebook dichiara appena 50 milioni di utenti al mese su WhatsApp Business e la strada appare ancora lunga.
Con le API di WhatsApp Business (lo strumento per interfacciare l’app con altri sistemi) invece Facebook ha già iniziato, se non altro, a provare a fare cassa. Come funziona? WhatsApp dà alle grandi aziende la possibilità di rispondere ai messaggi dei clienti e di inviarne a loro volta. Fra i clienti italiani ci sono Tim, Vodafone, Poste, Generali ed Enel. Facebook guadagna solo nel caso in cui la piattaforma venga usata per inviare messaggi dall’azienda al cliente, per esempio nel caso di una compagnia aerea che manda la carta di imbarco a un passeggero. Facebook dichiara che lo strumento è usato da decine di migliaia di aziende. Questa funzione ha portato alla discussa modifica dei termini di servizio dello scorso maggio: proprio nell’ottica di dare alle grandi aziende la possibilità di comunicare con i clienti e avere accesso alle conversazioni per finalità di marketing, WhatsApp ha cambiato i termini di servizio. Ora il contenuto degli scambi può essere salvato nei server del cliente e di aziende con cui il cliente collabora. Gli stessi scambi vengono ospitati anche nei server di Facebook.
È molto probabile però che anche questi canali non stiano ridando a Facebook le somme investite, neanche lontanamente. A quanto risulta questi ricavi sono compresi nella voce «Altro», che nel secondo trimestre ammontava a 497 milioni e dunque circa due miliardi l’anno. Quasi niente, a fronte dei 28 miliardi provenienti dalla pubblicità. In sostanza quella cena di Zuckerberg a base di sushi da 19 miliardi del 2014 potrebbe essere stata uno dei peggiori affari della storia del capitalismo. O l’alba di un nuovo capitalismo in cui costruire un impero planetario è sempre un affare, a qualunque prezzo.
WhatsApp: quanto vale l’app pagata da Zuckerberg 19 miliardi - Corriere della Sera
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