Questa newsletter ha due obiettivi: aprire la mia cucina di giornalista, perché i lettori vedano come si forma il nostro lavoro; e connettere ingredienti che sembrano lontani, mostrare perché sono in rapporto fra loro anche se non sembra. Per questo oggi parlo della mia esperienza dopo oltre un quarto di secolo a un Ecofin informale e della minaccia, agitata da Ursula von der Leyen mercoledì, di una guerra commerciale alla Cina sulle automobili elettriche. Non si direbbe, ma i due argomenti hanno qualcosa a che fare l’uno con l’altro.
Trent’anni di Ecofin «informali»
In anni lontani, fra il 1994 e il 2002, ho seguito ogni singolo Ecofin «informale» del calendario europeo. Si tratta di incontri dei ministri finanziari e dei banchieri centrali dell’Unione europea convocati, due volte l’anno, in qualche località amena e un po’ fuori mano del Paese organizzatore (quella della «presidenza di turno»). Si chiamano «informali» non perché lo siano, ma perché servono a trattare i temi di fondo e a formare orientamenti senza la tirannia del dover approvare misure legislative. Quasi trent’anni fa avevo seguito Ecofin informali con Lamberto Dini ministro del Tesoro del suo stesso governo o Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro del primo governo di Romano Prodi. Governatore della Banca d’Italia era Antonio Fazio. Ministro delle Finanze tedesco, con Helmut Kohl cancelliere, Theo Weigel; presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer. Qualcuno ricorderà quei volti e quei momenti.
L’Ecofin di Santiago de Compostela
Poi ho fatto altro a lungo, fino a quando ho deciso di tornare per una volta a un Ecofin informale: quello di venerdì e sabato scorsi a Santiago de Compostela, in Galizia, Spagna. Così sono diventato involontariamente il soggetto di un esperimento comportamentale: mettere e confronto com’erano quegli eventi tre decenni fa e come sono ora, senza aver visto niente nel frattempo; l’occhio era fresco, non addomesticato, perfetto per notare le differenze. Non ho potuto fare a meno di chiedermi quand’è che per i decisori politici è diventato normale non informare i giornalisti. Venti o trent’anni fa Dini o Ciampi o Vincenzo Visco, Theo Weigel o, in seguito, Giulio Tremonti, oltre a tutti gli altri ministri finanziari dei diversi Paesi uscivano da un giorno e mezzo di riunioni informali, si sedevano davanti ai reporter da qualunque Paese venissero (bastava entrare nella stanza delle diverse delegazioni) e spiegavano. Loro in persona. Ho visto Ciampi illustrare tutti i temi dei dibattiti leggendo dai suoi appunti, anche se non riguardavano l’Italia, seduto accanto a un direttore generale del Tesoro di nome Mario Draghi. Rispondevano a tutte le domande. L’intera prima linea del Tesoro era là, a seguire e a spiegare meglio ai giornalisti se occorreva. E così i ministri e i governatori degli gli altri Paesi. I media di tutta Europa ne uscivano con un’idea dei temi di fondo, non solo del ristretto angolo d’interesse di ciascun governo in ogni momento dato. E qualcosa, in questa agenda più ampia, arrivava all’opinione pubblica.
Una «scuola di trasparenza»
Non è il caso di idealizzare il passato, chiaro. Anche allora i politici erano scaltri. Avevano i loro obiettivi, enfatizzavano o sorvolavano i vari punti secondo le convenienze. Lo faceva Ciampi; lo faceva moltissimo Gordon Brown, quando era cancelliere dello Scacchiere di Londra. Lo facevano tutti, com’è normale. Ma tutti si esponevano ogni volta alle domande di chiunque, a lungo. E l’Ecofin non perdonava. I giornalisti potevano confrontare la versione dei loro ministri nazionali con quella di ministri e governatori degli altri Paesi, per capire chi stava mentendo, dove e perché, e cosa veniva omesso, cosa esagerato. Era una scuola di trasparenza e, francamente, di giornalismo. dal confronto fra le varie versioni si facevano veri e propri scoop. Era una ginnastica che educava noi nei media alla pluralità delle fonti. E aiutava a rendere l’opinione pubblica un po’ più consapevole e meno chiusa dentro la prospettiva del proprio ceto politico locale.
Il silenzio dei ministri Ue
A Santiago ho trovato tutto questo, semplicemente, azzerato. Non so quando sia avvenuto il cambiamento, ma alcuni ministri si limitano a incontrare giusto la loro delegazione nazionale di giornalisti il giorno prima delle discussioni più importanti: parlano in «off the record» – contenuti non citabili, non attribuibili, dunque smentibili all’occorrenza – e si limitano a indottrinare l’uditorio sulla loro posizione. Il loro punto di vista e nient’altro. Altri ministri, come l’italiano Giancarlo Giorgetti – ma non è il solo – neanche compaiono. Si limitano a mandare in sala stampa un addetto ai rapporti con i media con il compito di riportare pochi, scarni messaggi e con nessuna latitudine per rispondere a qualunque domanda. Persino le conferenze stampa generali, quelle della presidenza, sono più vuote di domande e più povere di risposte. Poco più che soundbites, parole d’ordine ripetute alla noia. Materiale per video di trenta secondi sui social media.
Un «patto di non aggressione»
Naturalmente il mio non è altro che un lamento del genere «o tempora, o mores», che rivela la mia età (sì: 57). Ma la domanda più seria è un’altra: perché l’Ecofin è cambiato tanto e cosa dice questo cambiamento dell’Europa? La risposta, credo, è a diversi livelli. In primo luogo dev’esserci una sorta di patto di non aggressione fra ministri: se nessuno si espone a parlare, le versioni degli uni e degli altri non sono più confrontabili e non si corre più il rischio di mettersi in imbarazzo a vicenda. Un effetto collaterale però è che la trasparenza si perde e così anche la capacità dei cittadini e dei ceti dirigenti nazionali di capire cosa realmente stia accadendo in Europa. Loro e gli elettori si muovono come in una stanza semibuia.
La diffidenza degli italiani verso l’Ue
Diventa più difficile formare orientamenti nazionali con una visione che non sia di cortissimo respiro. Qui scatta un secondo livello. Se i ministri soggettivamente scelgono di nascondersi, è perché l’Europa non è popolare: temono che essere visti come troppo impegnati, aldilà della difesa ostinata a Bruxelles di un presunto interesse nazionale, nuoccia loro elettoralmente. L’ultimo sondaggio Ipsos pubblicato da Nando Pagnoncelli sul Corriere mostra come l’approvazione dell’Unione europea sia molto scesa in Italia dalla crisi del debito e da allora non si sia più ripresa. Una prospettiva più lunga, a trent’anni fa, rivelerebbe un calo anche più forte.
Il sorpasso cinese
Ma l’omertà dei politici non fa che alimentare la diffidenza dell’opinione pubblica, così come l’impreparazione del ceto politico quando entra in contatto con le istituzioni europee: una spirale negativa che si autoalimenta. Ne deriva il terzo livello di spiegazione, il più serio: come sanno forse i lettori di questa newsletter, l’Europa sta perdendo la corsa industriale internazionale in tutte le tecnologie di frontiera. Non ha alcuna sovranità nei semiconduttori più avanzati, dunque nell’intelligenza artificiale; non ha accesso autonomo allo spazio con i suoi satelliti perché, come ha spiegato Samantha Cristoforetti al Forum Ambrosetti di Cernobbio, non ha lanciatori spaziali; è totalmente dipendente dalla Cina per gli ingredienti farmaceutici e per la prima volta in ritardo sulla Cina in una serie di antitumorali di nuova generazione. E sta perdendo la competizione globale alla supremazia, o anche solo alla possibilità di competere, nella mobilità elettrica.
Le minacce vuote di Bruxelles
L’anno scorso la Cina ha prodotto dieci volte più veicoli a batteria della Germania. L’Agenzia internazionale dell’Energia prevede che nel 2030 i modelli elettrici rappresenteranno il 35% delle vendite di auto nel mondo e i marchi cinesi (a partire da Byd, partecipata da Warren Buffett) stanno conquistando l’Europa con i loro prezzi imbattibili: nell’elettrico, hanno già una quota di mercato dell’8% che sta salendo rapidamente. A tutto questo Von der Leyen ha risposto mercoledì scorso ipotizzando dazi sull’auto cinese, a causa dei sussidi. Ma era chiaro parlando con gli addetti ai lavori a Santiago come la stessa presidente della Commissione sappia che si tratta di una minaccia vuota. L’indagine antidumping di Bruxelles andrà avanti molto a lungo - la si farà durare - ma nessuno in Europa oserà esporsi a ritorsioni commerciali della Cina: siamo troppo dipendenti dal suo mercato.
Cosa deve fare l’Ue per non rimanere indietro
A Santiago si è parlato poco di questi problemi pressanti, ma un po’ sì. La presidenza spagnola ha invitato un managing director di Citadel, un grande fondo americano, che ha francamente fatto capire ai ministri come stanno le cose. Si chiama Angel Ubide e ha detto: «L’Unione europea ha bisogno di una revisione per arrivare a un’autonomia strategica aperta (non protezionista, ndr)» e per questo servono anche eurobond che finanziano almeno in parte «beni pubblici» europei, cioè capacità di competere nel mondo sulle tecnologie di punta con investimenti su scala europea. Ma pochi governi vogliono sentirne parlare: in Germania perché si teme di pagare per gli altri; in Italia perché si teme che il governo di questi processi di modernizzazione sia inevitabilmente europeo, dunque il ceto politico nazionale perda ancora più potere. Così nessuno spiega nulla di quanto viene detto in sala nei vertici, l’opinione pubblica resta al buio e si orienta sempre più, in molti Paesi europei, verso partiti nazionalisti che offrono consolazioni - a parole - facili. E gli Ecofin informali diventano eventi vacui, tediosi: celebrati dentro una bolla di irrealtà.
Questo articolo è stato pubblicato sulla “Whatever it Takes” di Federico Fubini, clicca qui per iscriverti.
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