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È l’Europa abbandonata a sé stessa; quella che impone sanzioni su forniture da cui dipende radicalmente; quella in assenza di un piano B da attuare in contesti di crisi energetica. Questa volta è il Financial Times a lanciare un monito alle istituzioni comunitarie: “L’industria statunitense dello shale ha avvertito che non può salvare l’Europa con l’aumento delle forniture di petrolio e gas questo inverno”.
L’Ue lasciata sola
Lo scorso marzo, Biden aveva annunciato un aiuto americano al nostro continente, corrispondente ad un export di 50 miliardi di metri cubi di gas nazionale liquefatto. Ad oggi, l’amministrazione democratica, ormai da settimane, sta cercando di convincere il Giappone ad abbandonare una parte delle proprie importazioni di Gnl, provenienti dal Qatar, proprio per indirizzarle all’Unione Europea. Nonostante tutto, per un continente composto da più di 400 milioni di cittadini (di cui solo l’Italia consuma 76 miliardi di metri cubi all’anno), il sostegno di Washington non risulta essere per nulla sufficiente. Ma le autorità avvisano: “Non è che gli Stati Uniti possano pompare un po’ di più. La nostra produzione è quella che è”, ha affermato Wil VanLoh, capo del gruppo di private equity Quantum Energy Partners, uno dei maggiori investitori dello shale patch. E ancora: “Non ci sono salvataggi in arrivo. Non dal lato del petrolio, non dal lato del gas.”
Le difficoltà degli Usa
Eppure, anche dal lato americano, la situazione non pare essere delle migliori. Con l’arrivo di questo inverno, infatti, il prezzo del petrolio potrebbe superare i 120 dollari al barile. Si consideri che, attualmente, tale valore si attesta intorno agli 87 dollari al barile. Ciò vuol dire che gli Usa non saranno in grado di aggiungere impianti di perforazione, come specificato anche da Sheffield, che gestisce uno dei maggiori produttori di petrolio nel Paese.
Per di più, la produzione statunitense sta risentendo il contraccolpo dell’aumento dei prezzi del scisto, roccia metamorfica decisiva ai fini della produzione del greggio. L’impennata della sua produzione, negli scorsi anni, ha reso gli Usa il principale produttore di petrolio a livello globale; eppure, come specificato dal Financial Times: “La produzione statunitense si è ripresa a soli 12,1 milioni di barili al giorno, a seguito di un forte calo, quando i prezzi del petrolio sono scesi durante la pandemia. Nuove preoccupazioni sulla crescita lenta dell’offerta di scisto arrivano, poiché anche i commercianti diventano ansiosi per la capacità del gruppo di produttori dell’Opec di aumentare l’offerta”. Si consideri, infatti, come la produzione di barili di petrolio, in epoca pre-pandemica, si attestava intorno ai 19,51 milioni di barili al giorno, staccando di gran lunga il secondo produttore globale, l’Arabia Saudita, ferma a 11 milioni di barili.
Insomma, se l’Ucraina potrà contare sul sostegno europeo, in tema militare ed economico; il nostro continente non pare avere le spalle coperte. L’unica opzione che si vuole attuare è quella di ridurre i riscaldamenti nelle case private dei cittadini, ma sulle forniture l’Ue rimane incredibilmente in ritardo. E ora non può contare neanche sull’alleato statunitense.
Matteo Milanesi, 16 settembre 2022
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